Il Giglio e il corallo
(Articolo gentilmente concesso dal Dott. Armando Schiaffino)
Intitolare il presente articolo La pesca del corallo all’isola
del Giglio sarebbe stato sicuramente fuorviante, considerato
il poco e discontinuo interesse dei Gigliesi per
questo tipo di attività. L’argomento risulta essere, nello
stesso tempo, estremamente interessante per l’enorme
valenza economica e commerciale che, nelle varie epoche
storiche, hanno sempre suscitato i ricchi banchi di
corallo presenti nelle acque dell’isola. Il corallo infatti
è sempre stato universalmente considerato come una
pietra preziosa, al punto di essere definito “l’oro rosso”,
utilizzato, fin dall’antichità per la creazione di gioielli,
con un ulteriore valore aggiunto di carattere apotropaico,
in quanto considerato come un talismano contro il
malocchio, simbolo di protezione, fortuna e prosperità
[1]
Come noto, l’isola del Giglio nel 1544 subì una rovinosa
incursione piratesca da parte del corsaro Ariadeno
Barbarossa che espugnò il Castello, deportò l’intera
popolazione e incendiò il paese distruggendo ogni
traccia, anche documentale, di pre-esistenti testimonianze
storiche. L’isola era già allora nota non solo dal
punto di vista strategico-militare ma anche per la sua
produzione vitivinicola e per le sue risorse minerarie;
oltre a questo, tutta una serie di indizi e circostanze
lascerebbero ragionevolmente ipotizzare che, già nel
periodo anteriore al Barbarossa, sia esistita una forte
attenzione legata all’industria del corallo. Il Giglio, nel XIII secolo, apparteneva alla potente Repubblica
Marinara di Pisa che aveva notevoli relazioni
commerciali con Trapani, in quei lontani secoli capitale
mediterranea della pesca e della lavorazione del corallo [2].
Con i suoi ricchi banchi corallini l’isola era a metà strada
di navigazione marittima fra Trapani e Pisa. Il dato più
significativo che collega, da epoche arcaiche, l’isola del
Giglio alla città, anzi all’intera provincia di Trapani, è la
coltivazione della vite ansonica. Nonostante che in tempi
moderni tale uva venga coltivata anche in altre zone
(Elba, Argentario, Capalbio ecc.) se si esamina una mappa
ampelografica (cioè una carta della coltivazione dei
vitigni nelle varie regioni d’Italia) di almeno cinquanta
anni fa, si nota che il vitigno ansonico veniva coltivato
estensivamente e unicamente sul territorio dell’isola del
Giglio e dell’intera provincia di Trapani. Oltre a varie
altre analogie di alcune tradizioni gigliesi con la Sicilia,
significativa la presenza di una copia della statua della
Madonna di Trapani nella chiesa di Giglio Castello (poi
trafugata) e attribuita allo scultore Nino Pisano[3]
Dal XVI secolo si iniziano ad avere prove documentali
sull’importanza dell’isola del Giglio nell’industria
della pesca del corallo e dei rapporti con i principali
centri della lavorazione e del commercio. Come noto
dalla storia, nel 1492 con il decreto dell’Alhambra, noto
anche come editto o decreto di Granada, i re cattolici di
Spagna Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona,
ordinarono l’espulsione delle comunità ebraiche dai regni spagnoli[4].
Nello stesso periodo storico i granduchi di
Toscana, allo scopo di incoraggiare la nascita e lo sviluppo
del porto di Livorno, emanarono le “leggi livornine”
con cui si concedeva, a tutti coloro i quali si fossero
trasferiti a Livorno, un’ampia serie di privilegi e immunità.
I destinatari principali delle leggi livornine furono
proprio gli ebrei, ai quali vennero concessi privilegi di
portata straordinaria e unica nell’Europa del ‘500. Fra i
tanti, Livorno offrì accoglienza a molte famiglie di ebrei
catalani che introdussero le tecniche di lavorazione del
corallo, la cui produzione ebbe un rapido sviluppo. In
questo contesto sorprendente, è molto significativa la
scoperta che fra i primi abitanti che popolarono la città
di Livorno ci fosse un gigliese ebreo! [5].
Nei secoli XVI e XVII furono attivi corallari livornesi,
trapanesi, napoletani, genovesi e marsigliesi che sfruttavano
intensamente non solo le risorse coralline della
costa laziale, comprese le isole tirreniche, della Sardegna
e della Corsica, ma avevano accesso anche ai ricchi
banchi del nord-Africa. Tale fervore aggiunse alle tradizionali
utilizzazioni l’ingresso del corallo tra le materie
prime dalle quali ricavare opere d’arte [6].
In tale periodo,
precisamente nell’anno 1699, all’isola del Giglio, fuori il
golfo del Campese, fu scoperto un banco corallino ricchissimo
e di ottima qualità; il conseguente sfruttamento indiscriminato e senza licenza da parte di numerosi pescatori
provenienti da Napoli e da Lipari fu denunciato
dal governo locale al Granduca che, a sua volta, iniziò
una protesta per via diplomatica presso la corte di Napoli.
Nonostante ciò, persino il rappresentante a Livorno del
viceré spagnolo di Napoli, il marchese Andrea Luigi De
Silva, aveva assoldato alcune feluche che pescavano indisturbate
il corallo al largo dell’isola del Giglio sostenendo
che la pesca nelle acque dell’Argentario, dell’Elba e di
Montecristo erano di attinenza del re di Napoli, mentre
la giurisdizione del Granduca di Toscana sulle acque del
Giglio si limitava alla lontananza di un tiro di cannone
dalla costa isolana[7]. La controversia non solo determinò
la costruzione della torre del Campese[8], ma causò addirittura
un contenzioso giuridico di diritto internazionale
che metteva in discussione i diritti della corona spagnola
sull’antico territorio senese.
Presso la Biblioteca Nacional de Madrid [9] è conservata una lunga relazione, opera di un
giurista che mirava a dimostrare, con dotte argomentazioni
storiche e con citazioni di autorevoli studiosi dell’epoca,
il diritto del granduca di Toscana su ogni genere di
pesca, compresa quella del corallo. Nel 1702 fu emanato
dal governo granducale toscano un regolamento per la
pesca del corallo nei mari toscani relativo al pagamento
di imposte e obbligo di portare a Livorno il ricavato[10]. Nel
1728 il governatore del Giglio concesse ai napoletani la
pesca del corallo, a condizione che il 10% del ricavato
fosse lasciato per le Regie Casse[11].
Il XVIII secolo vide una enorme espansione del commercio
europeo nell’Oceano Indiano, il che accrebbe
notevolmente la domanda di corallo mediterraneo di
colore rosso intenso che aveva come destinazione soprattutto
l’India e l’Himalaya dove, oltre ad avere un
alto valore nella gerarchia delle pietre preziose, possedeva
un valore simbolico ancora maggiore[12]; infatti il
corallo rosso non solo rappresenta il primo CHAKRA
della filosofia induista (dove esprime la stabilità psichica
e la capacità di governare gli istinti) ma addirittura
un loro rito funebre prevede, per il distacco dell’anima
dal corpo, proprio delle offerte di pregiato corallo
rosso.
I primi del ‘700 i commercianti ebrei livornesi
giunsero al loro apice nel traffico di articoli di grande
valore: un recente libro sulla storia di Livorno ci informa che due fra i principali commercianti ebrei
livornesi, Ergas e Silvèra, che avevano il monopolio
del commercio del corallo rosso, inviavano in India il
corallo pescato all’isola del Giglio [13].
Come accennato all’inizio del presente articolo, rimane
comunque difficile da quantificare la percentuale
di interesse locale, ovvero dei pescatori gigliesi, per la
pesca del corallo. In un documento del 5 agosto 1724
il governatore del Giglio ne lamenta il disinteresse nonostante
la persistente ricchezza dei banchi corallini locali[14]
e lo stesso concetto viene ribadito in una relazione
statistica del 1774[15]. Nel 1841 l’ispettore granducale
Antonio Salvagnoli Marchetti riferiva che dodici barche
napoletane e livornesi vi pescarono corallo per l’allora
considerevole cifra di 70.000 lire toscane.
All’epoca vi
erano a Giglio Porto 40 barche da pesca montate da
216 marinai che si dedicavano alla pesca dei soli pesci
commestibili[16]. In un’altra relazione del commissario
regio Angelo Assirelli del 2 agosto 1841 si auspicava che
qualche pescatore gigliese si dedicasse a tale industria[17].
In una lettera datata 25 ottobre 1843 a firma di L. Del
Chiaro diretta al Regio Governo si riferisce che al Giglio
la pesca del corallo si eseguiva ogni tre o quattro anni e
che quell’anno non era stata fatta. Sembra, alla fine, che
sia stata riattivata nel golfo del Campese da tre barche
nel 1859 e da quattro nel 1860, con buon profitto[18].
Dagli Annali del Ministero Agricoltura Industria e
Commercio si evince che nel 1870 le barche armate per la pesca del corallo in Italia erano 452 di cui 10
appartenenti alle marinerie di Porto Santo Stefano e
Isola del Giglio[19]. Tali imbarcazioni, erano dette “coralline”
e pescavano con una tecnica che prevedeva
l’utilizzo dell’“ingegno”: questo era un pesante strumento
costituito da travi incrociate (“croce di Sant’Andrea”)
dotato di pesi al punto di incrocio. All’estremità
della croce erano collocati pezzi di rete (“rezzinelle”) e
talvolta uncini (“gratte”). L’“ingegno”, assicurato con
una grossa cima a un argano sulla corallina, veniva fatto
strusciare sul fondo in modo da spezzare le colonie
di corallo, che restavano impigliate.
Grazie a una chiosa autografa dello storico Nello Paolicchi
in un libro sul Giglio, possediamo una preziosa
testimonianza sulle ultime coralline forestiere che, agli
inizi del ‘900, ancora pescavano nel mare dell’isola: Le
feluche coralline erano strette e lunghe, veloci; venivano
dall’isole partenopee, pescavano corallo e terraglio
sulla secca a 5 miglia N. di Giglio. Le ultime due vennero
al Campese, capeggiate da Carminiello di Ponza.
Comprò dal “Do” un fusto di gelso per fare, a Ponza,
la parte anteriore di una barca. I documenti di pesca
temporanea li trovai nell’archivio di Giglio Castello,
nelle prigioni. Il primo che ottenne il permesso per tutto
l’anno fu “Cavero”. Al Porto, i corallari avevano dei
magazzini. Due di questi corallari, ponzesi, erano fratelli,
si sposarono al Giglio e ebbero vari discendenti
ancora oggi vivi nella memoria degli isolani[20].
Le epiche vicende della secolare tradizione della pesca
del corallo all’isola del Giglio hanno anche ispirato,
nella seconda metà del ‘900, vari romanzi di letteratura
per ragazzi. [21]
Negli anni ‘60 dello scorso secolo, grazie alle opportunità
offerte dalla moderna tecnologia degli autorespiratori,
fu resa possibile la pesca subacquea del
corallo anche a notevoli profondità. Di quel periodo è rimasta memoria di una eccezionale pesca da parte di
due corallari provenienti da Orbetello che riuscirono a
raccogliere circa sette quintali di corallo in una secca
al largo di Cala Monella.
L’eccessivo sfruttamento dovuto a una pesca spropositata,
ha però minacciato e ridotto sensibilmente la
consistenza dei banchi corallini; di conseguenza, negli
ultimi anni, l’estrazione del corallo è stata protetta e
regolamentata.
In tempi più recenti, la crisi climatica ha fatto innalzare
sensibilmente la temperatura del mare: ciò ha provocato
vari fenomeni di mortalità di massa anche per le colonie
di corallo rosso del Mediterraneo, per ora solo nella fascia
da zero a trenta metri di profondità[22]. Tale fenomeno, riguardando
interi ecosistemi, può determinare una regressione
dell’intero ciclo biologico con conseguenze infauste
per l’ambiente marino e quindi anche per le stesse attività
umane legate alla pesca e al turismo. In questo contesto,
il corallo rosso, questa meravigliosa creatura che secondo
la mitologia era nata dal sangue delle gorgone a cui
Perseo aveva tagliato la testa, a cui tutte le civiltà hanno
attribuito poteri magici, oltreché ornamentali, terapeutici
e scaramantici, rappresenta un ulteriore e autorevole
monito che ci giunge dagli ecosistemi più profondi e ci
ricorda che il problema dell’adozione di provvedimenti
urgenti per evitare il collasso degli equilibri naturali non
sia più ulteriormente procrastinabile.
[1] La maggior parte del corallo usato fin dall’antichità per i gioielli
è tratto dagli scheletri calcarei di organismi marini appartenenti
al genere “corallum rubrum”, corallo rosso, che vive nel Mediterraneo
e che, fino alla prima metà del ‘700 era stato erroneamente
ritenuto appartenente al regno vegetale anziché animale. [2] La storia del corallo trapanese ha origini molto lontane e risale
al XII secolo. La scoperta di banchi di corallo avvenuta fra il 1416
e il 1418 nel mare di Trapani e nel 1439 nei pressi di San Vito Lo
Capo, determinarono l’immigrazione di famiglie di religione ebraica
provenienti dal Maghreb che contribuirono alla lavorazione e
alla commercializzazione sui vari mercati d’Italia. [3]Autori vari, Chiese e oratori campestri dell’isola del Giglio,
Circolo Culturale Gigliese, 2014. [4]
Gli ebrei che abitarono la penisola iberica fino al XV secolo
erano detti “Sefarditi”. [5]
Il signor Pietro Dini Provveditore della terra di Livorno concede
tutte le esenzioni, immunità e privilegi a Isach di …del Giglio
hebreo, Archivio di Stato di Livorno, Registro Comunità, c 77r, 19
ottobre 1594. [6]
Enzo Taramella, Corallo. Storia e arte dal XV al XIX secolo,
Maroda Editrice, 1985. [7].
Villani Roani Mara, Il Giglio fra Medici e Lorena, pag. 45, Circolo
Culturale Gigliese, Pacini Editore, Pisa 1993. [8]Bruno Begnotti, Cronache gigliesi 1558-1799, pag. 270, Circolo
Culturale Gigliese, Pacini Editore, Pisa 1999.. [9]
Pietro Fanciulli, Storia documentaria dei Reali Presidios di Toscana,
vol. II pag. 144, LAURUM Editrice, Pitigliano 1999. [10]Archivio di Stato di Livorno, Dogana, filza 6 c. 14.
[11]In un manoscritto adespoto del 1767 di un funzionario granducale
si legge che ogni barca corallina che viene a pescare in questi
mari paga due zecchini per ogni stagione di tre mesi. [12]Francesca Trivellato, Il commercio interculturale: La diaspora
saferdita, Livorno e i traffici globali in età moderna, Edizioni Viella,
Roma 2016. [13]Alessandro Bientinesi, La storia di Livorno, Typimedia editore,
Roma 2019. [14]
Ho sentito l’urgenti necessità che esprimono cod: i Popoli non solo
la grande scarsezza delle raccolte de’ grani, quanto la pesca miserabile
dell’Acciughe, e la poca speranza di buona raccolta di vino, che però
se essi vogliono aiutarsi nella pesca del Corallo, già da anni dismessa,
provando che riesca loro ritrovarla, potrà permettere che lo facciano;
Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 2517, c. 158. [15]Io ho notato, in una antica statistica del 1774, altri mezzi di
ricchezza, che sono peraltro di presente esauriti; e sono: Miniere di
Ferro, Marmi, Gesso, Terre rosse e gialle, Marchesite, Vetriolo, Porcellana,
ed una Secca di Coralli; e leggo altresì che si compiangeva
la necessità della popolazione ostinata alla coltura di un terreno
ingrato, mentre abbondava la ricchezza del mare e del commercio,
da “Giornale Agrario Toscano”, vol. XVIII, Aprile 1844, pp. 26-31.. [16]Antonio Salvagnoli Marchetti, Memorie economiche statistiche
sulle maremme toscane, Firenze 1846. [17]Angelo Assirelli, Rapporto Speciale del Commissario Regio di
Grosseto sull’eseguita visita delle isole del Giglio e Giannutri, 2 agosto
1841: L’industria principale della popolazione della Marina consiste
nella pesca. La scarsità delle acciughe rende in quest’anno più
miserabile del solito le sue condizioni economiche: ma la permanenza
di otto barche, due delle quali livornesi, le altre forestiere, addette
alla pesca del Corallo, che sonosi là stanziate da circa un anno, e che
vi trovano un discreto profitto, ha già fatto nascere in qualcuno dei
pescatori gigliesi il desiderio di dedicarsi a questa industria. [18]Vincenzo Mellini Ponce de Leon, manoscritto inedito del 1862. [19]Giovanni Tescione, Italiani alla pesca del corallo, pag 239, Napoli,
Deputazione Italiana di Storia Patria, MCMXL. [20]Il primo fratello, Romano Pasquale era il padre di Carmine (detto
“Carminiello”) che era nato a Ponza nel 1894 e, nel 1921, aveva sposato
la gigliese Baffigi Rosa Maria di Giovanni Battista (detto “Trappoletta”)
e Stagno Rosa e, dalla loro unione, nacque Romano Giuseppe,
storico guardiano del faro del Capelrosso. Il secondo fratello,
Romano Domenico, era sposato con una donna di Ponza ed erano
i genitori di Libera, che sposò il gigliese Pietro Pellegrini, per un
periodo guardiano del faro dell’isola di Giannutri. Dalla loro unione
nacque Domenico, destinato a diventare noto imprenditore gigliese,
Rocco e Maria Antonia, detta “Mariette” in onore della leggendaria
Marietta Moschini, eremita dell’isola di Giannutri. [21]Laura Guidi, Il Giglio di corallo, RCS libri Bergamo 1996; Giuseppe
Bufalari, Il ragazzo dell’orsa maggiore, AMZ Milano 1977;
Giuseppe Bufalari, La barca gialla, Einaudi, Torino 1966. [22]Da un articolo on line di Simone Nicolini, istruttore subacqueo
e titolare del centro immersioni Argentario Divers di Porto Ercole,
del 12 novembre 2023.
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